Lo straniero errante. Il kirpan e le ragioni dell’“errore” dei Sikh

Le vicende giudiziarie che hanno coinvolto alcuni membri della comunità Sikh offrono lo spunto per riflettere sull’approccio impiegato dalla giurisprudenza italiana verso le “nuove” forme di manifestazione della libertà religiosa nel mutato contesto sociale nazionale. I giudici hanno ritenuto che la pubblica ostensione del kirpan, simbolo che consustanzia i principi del credo Sikh, integri il reato di porto abusivo d’arma previsto e punito dall’art.4 della legge n.110 del 1975, di fatto vietando ai fedeli di poter indossare uno dei c.d. cinque K, oggetti densi di simbolismo e, pertanto, prescritti come obbligatori nell’alveo del sikhismo. Questo divieto è sintomatico di come l’evoluzione in senso pluri-culturale e pluri-religioso della nostra società stia sottoponendo le categorie giuridiche dello Stato di diritto a uno stress semantico senza precedenti. Possono i nostri istituti, concepiti per “funzionare” all’interno di un quadro sostanzialmente monoculturale, dare efficacemente risposta alle istanze di riconoscimento promananti dalle comunità diasporiche che oggi popolano il territorio nazionale? La risposta a questo interrogativo è strettamente connessa alle modalità con cui “utilizzeremo” le categorie giuridiche: sarà negativa qualora persevereremo nell’utilizzare il diritto come forma di conservazione dello status quo; al contrario, sarà positiva, se saremo in grado di operare un uso interculturale del diritto. In tale ottica si è cercato di analizzare l’istituto dell’errore di fatto di cui all’art. 47 c.p., proponendo un suo utilizzo al fine di escludere la punibilità dei Sikh che, indossando il kirpan, agiscono presupponendo una realtà diversa da quella in cui effettivamente si consumano le loro esperienze. Questa diffrazione cognitiva ha una evidente base culturale e interseca il carattere ineluttabilmente localistico insito nelle scansioni e nelle categorizzazioni della realtà mediamente diffuse tra l’ “italiano tipo”; categoria della quale il giudice stesso è espressione. Dare ascolto alla voce dei Sikh, riconoscere il loro (supposto) errore, potrebbe concretamente aiutare a disinnescare l’apparente conflitto culturale tra sistemi culturali-religiosi, per scoprire, magari, che pur operando su piani semantici senza dubbio differenti, tali sistemi contengono continuità assiologiche sorprendenti, addirittura inaspettate.

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