La Legge n. 219 del 2017 ha aperto una nuova frontiera giuridica nel settore sanitario: rileggendo in chiave liberale la relazione medico-paziente, ha consacrato il principio di autodeterminazione terapeutica. Le luci della richiamata legge, che pone l’epicentro della tutela del soggetto nella dignità umana, ponendosi in antitesi alla cultura dell’accanimento terapeutico e del paternalismo sanitario, non ne cancellano le ombre, che, sul terreno delle disposizioni anticipate di trattamento (DAT), si allungano sulla procedura di formazione della volontà. Pesa il silenzio normativo sul crinale degli scenari sanzionatori a fronte di una mancata o non adeguata attualizzazione del momento informativo. La necessità di tutelare valori primari della persona umana reclama una tutela anticipata, da attuarsi non solo a valle, in fase esecutiva della scelta terapeutica, ma anzitutto a monte, in fase formativa della stessa, soprattutto quando l’asimmetria della relazione medico-paziente sia determinata da uno squilibrio non solo informativo, ma anche linguistico e culturale. Imprescindibile appare in questo caso una tutela rafforzata che passa attraverso un attento controllo sulla adeguatezza dell’informazione e sull’effettiva comprensione da parte del testatore dei trattamenti sanitari erogabili nel fine vita e delle possibili conseguenze in caso di consenso o rifiuto alle cure vitali. In questo contesto, sarebbe utile valutare l’opportunità, passando attraverso l’ascolto antropologico del paziente, di predisporre specifici strumenti informativi e assistenziali che, guardati in controluce all’esperienza socio-culturale del testatore straniero, lo supportino nel percorso valutativo, affinché l’esercizio del diritto a lasciarsi morire dignitosamente sia frutto di una scelta responsabile, meditata e giusta.
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